Stefano Chiacchella. Un pennello che suona il jazz Pittore perugino, figlio del lago, presente con una serie di personali

foto mostra stefano chiacchellaPERUGIA – Non si è ancora spenta la eco delle recenti manifestazioni dedicate alla musica jazz in varie piazze dell’Umbria, e con essa la presenza con una serie di personali del pittore perugino, figlio del lago, Stefano Chiacchella. Egli, infatti ha partecipato a Valfabbrica a “Esplorazioni sonore – rassegna di arti contemporanee”, al Deco di Ponte San Giovanni “Sotto il cielo del jazz” e per tutto il mese di agosto presso la Pizzeria Oasi 1882 “Stefano Chiacchella, Opere dal 1998 al 2008”.

La luce dei neon, incessante illumina l’acre aria di uno dei tanti hotel, piccoli, sudici, imbrattati d’alcol, droga e proiettili.

Sulla strada la solitudine di un sax in cui soffia un fatiscente negro, lui, non la sua anima si perde nelle atmosfere nebbiose del “Cotton Club” nei quartieri bassi di Harlem o Chicago, saturo di sofferenza, disponibilità forzosa di donne che smerciano corpi di bellezza rara, rinsecchiti dentro; e uomini che le raccolgono assetati con i loro aliti gonfi di fumo e whisky.

Corpi, gambe che interpretano suoni straziati e strazianti in sinfoniche sintonie inconsuete, duttili, graffianti che segnano struggenti, penetranti, disperati fraseggi, estenuanti all’estremo lamento che ciondolano tra l’improvviso attacco di un sax, il rapido pulsare di un contrabbasso e la sfacciata precisa irruenza di una batteria.

L’aura avvolge la musica che si tinge di nero – quella “Simphony in black” che vide protagonisti Billie Holiday con Duke Ellington – vive di nero, il nero americano perdente, capace di espandersi in virtuosismi e virtuosità velatamente allegri, malcelati intermezzi ruffiani.

Su tutto, si materializzano Monty “Prewitt” Cliff che urla di rabbia nel bocchino, unico pezzo che rimane della sua tromba in “Da qui all’eternità” o la dilaniante esasperazione – ancora – della tromba di Maynard Ferguson a sottolineare l’autunnale solitudine del prof. Delon ne “La prima notte di quiete” o il suono lacerante di Miles Davis che contrappunta il bianco e nero dell’ “Ascensore per il patibolo”; il Dexter Gordon di  “Round Midnight”, il cui titolo fa riferimento ad una composizione di Thelonius Monk, il quale sostiene che solo intorno alla mezzanotte, ora densa di magica atmosfera, si celebra nei jazz club, il rito di una musica, impropriamente definita particolare.

E poi, gli uomini dal braccio d’oro, le anime dei Bix Beidebecker, Charlie “Bird” Parker, Chet Baker, il fuoco di Ornette Coleman che suonano “per chi stanotte non dormirà inseguendo barattoli presi a calci per la via…”; e poi…le dark, le Marylin…e le verande merlettate che raccontano campi di cotone, avventurieri e Rosselle O’Hara; “frame” che impressionano storture di vita impietose ed impetuose, bianchi e neri e colori desaturati rimandano fitti silenzi di anime ferite, perdute nella delusione di sogni devastanti e devastati nel blu notte,

Stefano Chiacchella in questa ode al jazz, occhieggia e reinterpreta mondi che naturalmente gli appartengono, lui che si definisce pianista senza vergogna e che annovera un’invidiabile collezione in vinile di musica jazz, mutuando sfacciati toni pop improvvisamente caricati d’incognita sensibilità, discreta, rispettosa, direi quasi silenziosa di quell’universo jazzista vitale, (in) ascoltato che si perpetua in un rituale etnico che circoscrive attimi rubati e meditati.

Sonorità cromatiche di toni neri, pause rosse, orizzonti (di) speratamente gialli e blu narrano ritagli d’un sentire d’artista imbevuto di passione e passionalità.

E fino a quando per l’aria si spanderanno le note d’un clarinetto o di una cornetta jazz, stiamo pur certi che le atmosfere che si spanderanno per l’aere avranno i colori e l’affezionata pennellata di questo artista sempiterno ragazzo.