Alberto Burri: l’arte che imita la vita È nato a Città di Castello il 12 marzo 1915. Artista, pittore e medico italiano. La prima mostra personale si svolse a Roma, nel luglio 1947, presso la galleria "La Margherita". Nel 1948, nella sua seconda mostra personale, propose per la prima volta opere astratte

Alberto Burri
Alberto Burri

Gli umbri che vengono a Perugia e salgono l’ultima rampa di scale mobili all’interno della meravigliosa , ci hanno fatto probabilmente l’abitudine; ma il turista italiano o straniero che sia, certamente rimane quanto meno sconcertato alla visione di quel monolite nero con in cima quella mezza “torta” che gira lentamente. E sicuramente si porrà qualche interrogativo più o meno benevolo su una presenza che può apparire incongrua in una location così affascinante, carica di storia come la Rocca con le sue mura e le sue antiche strade. E forse, la curiosità lo porterà a leggere il nome dell’opera e dell’autore, rimanendo in ogni caso, confuso e disorientato.
Ma i nostri non sanno che l’artista umbro, nativo di Città di Castello è uno degli artisti più grandi riconosciuto in Italia e all’estero, tanto che l’Isola di San Giorgio Maggiore a Venezia presenterà dal 10 maggio al 28 luglio 2019 BURRI la pittura, irriducibile presenza, ampia e importante retrospettiva antologica dedicata ad Alberto Burri, a coronamento di una stagione di grande celebrazione dell’artista umbro. “Dopo un quarto di secolo dalla sua scomparsa, avvenuta nel 1995, la mostra pone in evidenza la trasformazione recata da Burri nell’arte del XX secolo – spiega Corà – Presidente della Fondazione Burri – Non è improprio paragonare l’innovazione linguistica introdotta da Burri con la ‘presentazione’ sistematica della materia reale al posto della mimesi rappresentativa, alla rivoluzione giottesca compiuta nel sostituire ai cieli d’oro della pittura medioevale il celeste che si poteva osservare in natura. In entrambe le innovazioni veniva introdotto il ‘vero’ nella pittura al posto della finzione imitativa di esso. Lo shock prodotto da Burri negli anni dell’immediato dopoguerra – continua il curatore – si può misurare solo con l’effetto ottenuto in tutto l’arco di esperienze artistiche da lui influenzate: dal New Dada di Rauschenberg, Jonhs e Dine, al Nouveau Réalisme di Klein, César, Arman e Rotella, dall’Arte Povera di Pistoletto, Kounellis, Pascali e Calzolari all’Arte Processuale e fino al Neominimalismo a base monocroma”.
Ma cerchiamo di ripercorrere a questo punto le fasi principali della vita del Nostro. Laureato in medicina, ha iniziato a dipingere mentre era prigioniero, durante la seconda guerra mondiale, negli Stati Uniti dedicatosi poi completamente alla pittura, si è presto rivolto (1947) a ricerche astratte con l’impiego di particolari materiali: sabbie, catrami, pomice, smalti divengono mezzi di un rinnovamento del linguaggio pittorico e un originale contributo alla poetica informale. Nel 1951 ha partecipato alla fondazione del gruppo romano Origine. Alle serie dei Neri, dei Gobbi (la superficie del dipinto è deformata da rigonfie protuberanze inserendo da dietro il telaio rami nodosi) e delle Muffe. Queste opere, che esegue tra la fine degli anni Quaranta e gli inizi degli anni Cinquanta, conservano un carattere essenzialmente pittorico, in quanto sono costruite secondo la logica del quadro. Le immagini, ovviamente astratte, sono ottenute, oltre che con colori ad olio, con smalti sintetici, catrame e pietra pomice. Nella serie dei «gobbi» introduce la modellazione della superficie di supporto con una struttura di legno, dando al quadro un aspetto plastico più evidente.
Ai primi anni ’50 risalgono i Sacchi: sulla tela uniformemente tinta di rosso o di nero incolla dei sacchi di iuta. Questi “sacchi”, la cui ricerca dura solo un quinquennio, hanno sempre un aspetto «povero»: sono logori e pieni di rammenti e cuciture. Al loro apparire fecero notevole scandalo: ma la loro forza espressiva, in linea con il clima culturale del momento dominato dal pessimismo esistenzialistico, ne fecero presto dei «classici» dell’arte. Con alcune mostre tenute da Burri in America tra il 1953 e il 1955 avviene la sua definitiva consacrazione a livello internazionale.
Seguono le Combustioni (1957) e con queste compie una svolta significativa nella sua arte, introducendo il «fuoco» tra i suoi strumenti artistici. Con la fiamma brucia legni o plastiche con i quali poi realizza i suoi quadri. In questo caso l’usura che segna i materiali non è più quella della «vita», ma di un’energia che ha un valore quasi metaforico primordiale – il fuoco – che accelera la corrosione della materia. Nella sua poetica è sempre presente, quindi, il concetto di «consunzione» che raggiunge il suo maggior afflato cosmico con la serie dei «cretti» che inizia dagli anni Settanta in poi. Negli anni a seguire realizza i Ferri (1958), i Legni (1959) e poi, passando alla manipolazione di materie artificiali, le Plastiche degli anni Sessanta. I materiali (la iuta grossa e consunta dei Sacchi è materiale pittorico alla stessa stregua del catrame, del colore ad olio o sintetico, delle plastiche trasparenti ripiegate o combuste), il collage, le lacerazioni, le cuciture, le bruciature si presentano in una drammatica e violenta immagine (a volte, tuttavia, segnata da una grazia e raffinatezza apparentemente contraddittorie), sempre controllata e orchestrata dal pittore. Tipiche degli anni Settanta sono le serie dei Cretti. Ma cerchiamo di capirne il significato che ha origini antiche ed è proprio della pittura. Infatti il cretto o craquelure, in francese, è un reticolo disordinato di piccole crepe o innalzamenti di colore, simili ai segni del nostro sistema vascolare a fior di pelle, che si producono, generalmente, nella parte superficiale del dipinto, pertanto sul colore, in un arco di tempo che va dai sessanta ai 120 anni della conclusione dello stesso. La lunga gestazione del fenomeno è dovuto alla perdita progressiva dell’elasticità del colore a olio. “La Gioconda” di Leonardo ne è un esempio tangibile. Burri alla realizzazione dei Cretti vi si applica fino al 1976. Sono superfici che ricordano le fessurazioni delle terre argillose, quando la siccità raggiunge il suo apice. Su superfici di cellotex, quadrate o rettangolari, distende un impiastro di bianco, di zinco e colle viniliche, aggiungendo terre colorate nel caso l’opera dovesse presentare sfumature o colori diversi. Il resto lo affida al processo di essiccamento. Con l’aumentare delle dimensioni dei Cretti, gli impasti si arricchiscono anche di caolino, oltre che di bianco, di zinco e terre. A garantire la stabilità delle superfici Burri interviene, dopo l’essiccatura, con più mani di vinavil. Giunge a realizzare opere decisamente monumentali come i Cretti di 5 metri di altezza e 15 metri di base per i musei di Capodimonte e di Los Angeles.
L’apice lo raggiunge allorchè decide di creare un enorme sudario sul vecchio abitato di Gibellina, distrutto dal terremoto nel 1968. Il Grande Cretto di Gibellina, diviene una delle più grandi, ma anche simboliche opere, di Land Art mai realizzate.
I lavori per il Grande Cretto furono avviati nel 1985 e interrotti nel 1989. Si era giunti alla copertura di circa 65.000 mq. a fronte degli 85.000 mq. previsti. Il progetto di Burri nelle sue forme riporta la dimensione, le strade, i rilievi della città. Esattamente come un sudario riporta le forme del corpo che avvolge. Le fessure sagomate dal cemento dell’opera ripercorrono le strade e le piazze della vecchia Gibellina, congelandone per sempre non solo la forma ma anche la memoria.
Nel 2015 a “Burri e i Cretti” fu dedicata una mostra al Museo Riso di Palermo, con la convergenza della Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri. Ciò in coincidenza con il completamento del Grande Cretto a Gibellina e nell’ambito delle Celebrazioni del Centenario della nascita del grande maestro umbro. L’esposizione fu curata dal già citato professor Bruno Corà, Presidente della Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri.
Con i Cellotex, la ricerca di B. sembra indirizzarsi sempre più verso una pittura pura in un ordinamento della composizione ora segnata dalla severità di una “divina proporzione” ora più allusiva nelle forme e nei colori. Una progressiva tendenza alla monumentalità caratterizza la sua produzione dalla fine degli anni Settanta, a partire dai cicli pittorici, nei quali tornano le relazioni fra materia pura e intervento pittorico (Il viaggio, 1978-79; Sestante, 1983; Annottarsi, 1985-86; Metamorfotex, 1991; Nero e oro, 1993), fino alle grandi sculture in ferro (Grande ferro sestante, 1982). Lo storico dell’arte Giulio Carlo Argan lo definisce come un “dermatologo dell’arte” poichè, da medico quale era, analizza e controlla la superficie, i pori e la cute delle “cose”. L’eterogeneità dei materiali utilizzati nelle sue opere, frutto di esperimenti e studi, lo rendono un punto saldo  per la corrente dell’informale materico non solo per la quantità di materiali usati ma per il suo modo di agire e di utilizzarli.
Ed a questo punto, sarà bene aver chiaro cosa significhi informale.
Con tale termine vengono definite una serie di esperienze artistiche, sviluppatesi soprattutto negli anni ’50, e che hanno una fondamentale matrice astratta. La caratteristica dell’«informale» è di essere contrario a qualsiasi «forma».
Ma cosa sono le «forme»? Nella realtà sensibile è forma tutto ciò che ha un contorno, con il quale un oggetto o un organismo si differenzia dalla realtà circostante, e nel quale si definiscono le sue caratteristiche visive e tattili. Anche l’arte astratta, soprattutto nelle sue correnti più geometriche, si costruisce per organizzazione di forme. Queste, non più imitate dalla natura, nascono solo nella visione (o immaginazione) dell’artista, ma rimangono pur sempre delle forme.
L’informale, rifiutando il concetto di forma, si differenzia dalla stessa arte astratta, costituendone al contempo un ampliamento. Questo ampliamento non è da intendersi solo come possibilità di creare immagini nuove, ma anche come allargamento del concetto stesso di creatività artistica in quanto l’informale produrrà in seguito una notevole serie di tendenze che finiscono per sconfinare del tutto dalle tradizionali categorie di pittura e scultura. L’informale è pertanto da considerarsi una matrice fondamentale di tutta l’esperienza artistica contemporanea. Il termine «informale» fu coniato negli anni ’50 dal critico francese Tapié.
In conclusione cosa possiamo dire dell’opera di Burri? Che l’arte interviene sempre «dopo». Dopo che i materiali dell’arte sono già stati «usati» e consumati. Essi ci parlano di un ricordo e ci sollecitano a pensare a tutto ciò che è avvenuto nella vita precedente di quei materiali prima che essi fossero definitivamente fissati nell’immobilità dell’opera d’arte. La poetica di Burri, più che il suo stile, hanno creato influenze enormi in tutta l’arte seguente. La sua opera ha radicalmente rimesso in discussione il concetto di arte, e del suo rapporto con la vita. L’arte come finzione mimetica che imita la vita appare ora definitivamente sorpassata da un’arte che illustra la vita con la sincerità della vita stessa.
E forse noi, da questo momento in poi, guarderemo all’opera del maestro con occhio diverso; certi che comunque non si potrà dire “è bello”, perché la bellezza – e qui mi assumo tutto il rischio di quello che dico – è vero che sta negli occhi di chi guarda, ma abita da un’altra parte.