Le alchemiche armonie di Ferruccio Ramadori

NUDO RAMADORILa concezione pitagorica che determina il dualismo equilibrio e proporzione riferendosi all’armonia che interpreta anche in un’ottica musicale, vista come fautrice di una unità ordinata e razionale è alla base della pittura di Ferruccio Ramadori.

In una sua poesia, “Emigrazione” egli scrive: “[…]più faticamo e peggio c’iartrovamo./Non sapemo parlane /non sapemo arrisponne. (più fatichiamo e peggio / ci ritroviamo. / Non sappiamo parlare / non sappiamo rispondere.)”.

L’artista è sempre stato legato alla sua terra d’origine, la Valnerina ed in particolare Scheggino, che gli ha dato i natali. Un respiro nostalgico e poetico dei luoghi, un impegno preso con quei “non sappiamo parlare” e“non sappiamo rispondere” nel mezzo dei quali colloca la sua poetica che rifiuta la disarmonicità fra l’uomo e la realtà circostante, profondendo l’amore verso la sua terra e quanti l’hanno dovuta lasciare, nella memoria della pittura. Una trasfigurazione mistica che lo vede indagare l’anima lungo sentieri di trasparenza cosmica e cromatica, volti a cogliere le corrispondenze celate tra gli elementi della natura.

La pittura di Ramadori, non solo ha voce,ma allegramente urla. È il suo pennello, sono i suoi colori che materializzano e rendono palpabile il pensiero, il sentire dell’artista; egli, solo ci chiede di mettersi nella condizione d’ascoltare, così come la “Sant’Orsola” del Carpaccio, che trattiene con la mano chiusa a conchiglia all’orecchio, il sommesso impercettibile suono dei sogni e dei desideri. Lo spettatore dinanzi a queste tele di grandi dimensioni non può non essere partecipe dell’eloquio dell’artista, perch’egli, come già la sua poesia, è il paesaggio, in quanto assume piena consapevolezza della propria presenza nel mondo in armonia con l’ambiente che lo circonda; riproducendolo e riproducendosi metamorficamente nel bello (e nel brutto), cerca alfine solo d’uscirne migliorato. La poetica ramadoriana si sintetizza nella tradizione astrattista appresa dalla lezione di Kandinsky, personalizzando nel tempo “silohuette” biomorfe ed elementi fantastici di varia forma e colore. Posiziona sulla tela i colori fondamentali,li stende senza limite, in uno sfavillìo rigoglioso. La cupezza non gli appartiene e gioca con gli elementi scomponendoli in un continuo e regolare susseguirsi di linee; mura e palazzi di pietra, elementi di una metamorfosi futuribile e vagamente langhiana, divengono monumenti cristallizzati. Fughe ch’egli volutamente non contiene, anzi asseconda, indugiando in baroccheggianti parallelismi che fendono lo spazio in ideali figurazioni armoniche, godibilmente ironiche. Uno sviluppo di tratti ed elementi architettonici, in cui il tempo si sottrae alla memoria e si estende in una continuità fuori campo (FC), e fa suoi i concetti, pertinenti il quadro, di forza centripeta (fuori del quadro) e forza centrifuga (dentro il quadro): le opere dell’artista corcianese manifestano una forza che sollecita lo sguardo fuori dal centro: esclude si il mondo intorno ma lo presuppone in quanto complementare e necessario all’azione in campo: è l’estensione del non – visto.

In tal senso, di fronte alla cosmogonia del nostro, lo spettatore è indotto a completare il gesto pittorico ed entrarne a far parte condividendo quello che Seneca definiva “concentum”, traducibile con armonia, “cantare insieme”, riferito ad un’armonica unione di più parti melodiche.

Questo gioco di linee determina quello che Baudelaire descriverebbe come “La natura è un tempio dove pilastri vivi/mormorano a tratti indistinte parole; /l’uomo passa tra foreste di simboli/che l’osservano con sguardi familiari”; e così il Nostro, dissemina una combinazione di elementi, siano essi grafemi, siano essi numeri, che finiscono per reiterarsi nello spazio e nel tempo; le prime tre lettere dell’alfabeto, disposte per lo più in un ideale e percettibile triangolo (figura geometrica che ritornerà sovente), – alchemicamente simbolo dell’acqua, ed elemento di intuizione ed emozione – esotericamente rammentano l’origine della parola e la sua inalienabilità; i numeri riecheggiano un’ altra delle chiavi di lettura fondanti l’opera di Ramadori: il Tempo e l’Armonia. Il primo espresso in numeri romani sospesi nel colore, che viene inteso come “estensione dell’anima”, elemento centrale della nostra percezione della vita e trait d’union tra la biografia dell’artista e la storia di cui fa parte; in “Spartito”la Musica, è rappresentata da un pentagramma – una luce di fondo lo squarcia, posizionandolo su un letto blu intenso, un fiume dal ritmo di smetaniana memoria – e lascia intendere l’emanazione prepotente e sonora di un lirismo intenso e delicato, accentuando quelle consonanze musicali senza le quali non si può perseguire la perfezione della ragione e, da questa, le conseguenti consonanze dell’anima.

L’arte di Ramadori si presenta come sintesi perfetta di forme e colori ch’egli sublima ora in nette demarcazioni,vedi “Campo nel bosco” con una terra rosso fuoco che fa da contraltare ad una natura gioviale; i “Nudi” dove figure sirene/femminili che rimandano a Picasso, sommerse/immerse nell’azzurro d’acqua assumono un plastibilità inquietante; ora nell’uso delle varie tonalità di blu laddove pone, immerso e nascosto nelle linee virtuosistiche per quanto severe, quel “Nudo” di donna abbandonato, non sospeso bensì adagiato su una trasmutata mano non in attesa dell’inelluttabile, ma del sopraggiunto godimento.

Quello stesso sentire che Ferruccio, pur alla costante ricerca della risoluzione delle tensioni ch’egli esprime,percorrendo le vie della conoscenza della realtà profonde della vita,evoca nei suoi “Appunti”intimistici e familiari riuscendo a far riecheggiare

le memorie del suo passato evocando tempi e luoghi, suoni e silenzi perché “[…]Semo jente bastarda perchéne/ quilli dellà, de lu pianu /se sentono tutti arpuliti./ Ma cemo lu core bonu, e non sapemo dì mai de none.[…] (Siamo gente bastarda perché / quelli di là, della pianura / si sentono tutti ripuliti. /Ma abbiamo il cuore buono, / e non sappiamo mai dire no.[…]).